Accogliendo il grido

Accogliendo il grido. Passeggiavo per le vie del centro, di vicoletto in vicoletto. Nel mentre pensavo. Non ho mai amato pensare, concedere libero sfogo alla mente, lasciare inerme che mi conducesse come in balia del vento: ho sempre cercato di tenerla sotto controllo. Ma ogni tanto mi sfuggiva e, quando capitava, dovevo sbrigarmi a riafferrarla, come un palloncino che si libera leggiadro dalle mani di un bambino.

Correva selvaggia, ripescava ricordi della conoscenza del passato, nostalgie, rimorsi e rancori. Ma non avevo tempo per tutto ciò.
Ad un certo punto inciampai in un ostacolo: un cappello di feltro poggiato sul lastricato della via pedonale aveva intralciato i miei passi inattenti, facendomi volare per terra, accompagnata da uno scroscio acuto di monete che rimbalzavano sul porfido scuro.
Sbattei la testa contro una lastra mal posizionata.
Un uomo, di cui non avevo notato la silenziosa presenza fino ad allora, mi si avvicinò lentamente. I capelli scuri non suggerivano un’età avanzata, ma le morbide rughe sparse su tutto il volto esprimevano il contrario. Mi misi seduta e mi girai verso di lui, ancora stordita.
“Si è fatta male?”, mi chiese con aria pacifica ma preoccupata.
Ci misi un po’ a rispondere: non ero abituata a sentirmi dare del Lei.
“Ho sbattuto la testa, ma credo nulla di grave. Il cappello era suo?”
“Sì”.
I sensi di colpa mi assalirono. Cominciai a raccogliere le monete il più in fretta possibile, riponendole nel contenitore originale.
“Mi dispiace molto, non l’avevo proprio visto, mi scusi… Ora raccolgo tutto”
“Non si preoccupi, davvero. Piuttosto, vuole che le chiami aiuto?”
“Non c’è bisogno, ora mi rialzo. Gentilissimo comunque. Solo…”. Una sensazione sulle mani richiamò la mia attenzione: erano sporche di gesso colorato. Solo allora mi accorsi della ragione per cui il cappello si trovava per terra: un disegno in gesso, che l’uomo doveva aver realizzato nelle ore precedenti al mio arrivo.
Cercai in un attimo le parole per scusarmi ulteriormente, ma prima che potessi aprire bocca rimasi catturata dall’immagine che avevo davanti.
I miei pensieri vennero d’un tratto rapiti e in un batter d’occhio divennero parte di un fragore via via crescente.
Un sentiero sull’orlo del precipizio. Un colore acceso, prepotente, mi colpì rapidamente con violenza, facendomi traballare. Un vento impetuoso regnava sul caos che pervadeva quel luogo senza tempo. Non era caldo, non era freddo, ma rabbioso, potente.
Il cielo si ribellava alle forze opprimenti da cui era stato represso per troppo a lungo, ora si dimenava, e, feroce, incendiava la sera.
Le acque scrosciavano irruente sotto al sentiero, dirette verso l’orizzonte, senza piegarsi a nulla.
Mi guardai intorno. Due uomini camminavano con nonchalance, a passo lento, come per misurare il sentiero. Come potevano essere immuni a tale scenario? Come può un essere umano rimanere indifferente al frastornante, insovrastabile urlo della natura? Quel grido mi percuoteva in ogni mia singola cellula, non potevo ignorarlo. Non riuscivo nemmeno a chiudere gli occhi, attratta che ero da quella bellezza irruenta e sublime.
Giunta allo stremo, mi tappai le orecchie con forza, urlando dal dolore.
“Mi perdoni, non avevo visto la sua opera…”, ripresi.
“Non importa, l’importante è che non si sia fatta male”
“Conosco questo quadro, ricordo di averlo studiato anni fa a scuola”.
L’uomo mi rivolse uno sguardo con aria di soddisfazione velata.
L’urlo di Munch, uno dei quadri più fraintesi della storia dell’Arte” mi rispose. “Solo in pochi ne comprendono il vero significato”.
Si avvicinò ulteriormente a me, poi si chinò, tendendomi una mano per rialzarmi.
Poi proseguì.
“Mi dica cara, secondo lei chi è che sta urlando in questo scenario?”.
La risposta mi venne spontanea. “La natura. Non l’uomo. Lui non può che restarsene lì immobile, senza nemmeno un capello a ripararlo, coprendosi le orecchie, percosso internamente da un’enorme forza, davanti a cui è…”
“…totalmente inerme”, completò lui. “Vedi cara, solo chi vive può capire. Tu lo sai bene, non è vero? Sai bene che la natura, quando non può gridare esternamente, lo fa attraverso i nostri pensieri”.
Provai una sensazione strana in quel momento, come se avessi conosciuto quell’uomo da tutta la vita. Non era così, eppure era in grado di capirmi più di chiunque altro.
Andammo avanti a discorrere d’arte per ore. Riscoprii quel mio amore per l’Impressionismo che da ragazzina mi portava ad ammirare quadri per tempi interminabili, dialogando internamente con gli autori e con i personaggi. Quell’amore che, con il tempo, ero stata costretta ad abbandonare per via di tutte le priorità che, crescendo, ci vengono dipinte come più importanti dai propri adulti di riferimento.
Verso sera salutai quell’uomo e mi rimisi in cammino.
Mi promisi che mai più avrei tentato di ostacolare la mia mente, accettandone il grido impetuoso e la natura selvaggia che tanto la caratterizza, nonché renderla meravigliosa.

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